Ghost Tracks
Internet, Mon Amour è finito. Sulla carta. Ma continua qui su https://ima.circex.org
Con le storie che man mano ci inviate e raccontate
se volete contribuire, scriveteci a ima@circex.org
a presto e buona lettura!
Vie d’uscita?
Questione di karma
C’era gran confusione sotto il cielo e sotto il tetto del Centro Yoga Mulabanda. Il Maestro Yogananda si sarebbe rivoltato nella tomba se avesse potuto vedere quello che stava accadendo tra i discepoli dei suoi discepoli, o forse, avendo ormai raggiunto il Samadhi, non si sarebbe preoccupato affatto ma sarebbe esploso in una fragorosa risata dal respiro universale contemplando tutte queste piccole creature affannarsi inutilmente.
Il presidente del Centro, un anziano bodhissatva
di origini pugliesi, aveva un diavolo per capello: il gruppo Facebook
«Yoga Mulabanda», 2.300 iscritti, era precipitato in un vortice di
polemiche e insulti personali. «Maestro guardi!» Incalzava un giovane
yogi mostrando al presidente gli ultimi commenti sotto un post relativo
al seminario della settimana precedente. I commentatori selvaggi
mettevano in discussione l’integrità morale degli insegnanti del Centro,
insultavano il fondatore e chi interveniva per placare le acque veniva
insultato a sua volta, scivolando poi nel bad karma di sequenze di botta-e-risposta, sempre più violente e aggressive. Molti tra gli ultimi
arrivati si cancellarono dal gruppo Facebook e non rinnovarono la loro
retta al Centro.
L’atmosfera che si era creata non era certo la più adatta a una pratica focalizzata sulla non-violenza e sulla crescita interiore della persona. Il gruppo Facebook era diventato uno specchio distorto, una pessima vetrina per un Centro che si riproponeva come mission «l’evoluzione personale e la risoluzione dei conflitti interiori». E i conflitti esteriori? Gli odiatori, a loro dire, avevano delle buone ragioni per lamentarsi. Criticavano un’amministrazione non trasparente delle risorse comuni: «Bisognerebbe utilizzare i fondi per promuovere la nostra associazione con i mezzi messi a disposizione dalle nuove tecnologie!», si lamentavano i tecnoentusiasti. «Il consiglio direttivo è composto da vecchi!», buttava lì uno; «Da ladri!», rilanciava qualcun altro. E se i moderatori del gruppo nascondevano qualche commento un po’ troppo «violento», si gridava subito alla censura.
Intanto l’emorragia di iscritti continuava… chi si era avvicinato al Centro Mulabanda per cercare pace nella meditazione se ne allontava irritato dall’alto livello di rumore e confusione digitale. La stessa reputazione degli allievi diretti di Yogananda era messa in discussione. L’anziano direttore del Centro Yoga Mulabanda malediceva il giorno in cui si era lasciato convincere ad aprire un gruppo Facebook. D’altronde secondo i suoi giovani allievi era necessario per promuovere le attività del Centro; e ora invece, guarda un po’, la presenza sul social network sembrava portare in tutt’altra direzione, rovinando la reputazione del Centro e dei suoi membri. «Non avremmo mai dovuto immischiarci in queste cose mondane,» rifletteva il presidente parlando con il suo segretario davanti ad una tazza di tè verde. «Maestro, forse si tratta semplicemente di usare /tecnologie appropriate/» 1, azzardò il segretario.
Discriminante per chi?
Mina gestiva da qualche anno la pagina Facebook dell’associazione di cui era fondatrice. Da oltre 10 anni la sua associazione organizzava corsi e laboratori di arti performative con persone affette da sindrome di Down. Il lavoro era per lei fonte di grandissime soddisfazioni: il sorriso di un’adolescente dopo l’emozione del palcoscenico, la sorpresa di un’opera d’arte inaspettata nata dopo ore di laboratorio, la gioia di amici e parenti dei ragazzi e delle ragazze che partecipavano ai laboratori. Mina sentiva che tutta la sua fatica era ben ripagata.
Curava la pagina Facebook dell’associazione con amore maniacale. Ogni like ricevuto per
lei era una conquista personale: teneva tutte le gallerie fotografiche
ben ordinate in album tematici; i video distinti in playlist ragionate
con tanto di descrizione dedicata; moderava con attenzione i commenti
perché nessuno si sentisse offeso; aveva attivato una dettagliata
profanity list cosicchè eventuali commenti volgari potessero venir
nascosti automaticamente dal sistema.
Quella mattina però il laconico messaggio della piattaforma la indispettì: «è necessario inserire nuovamente login e password per accedere all’account». Diligente, Mina fece quanto chiesto e venne portata direttamente alla schermata delle notifiche: «Una pagina di cui sei amministratore è stata temporaneamente bloccata per contenuti non appropriati».
Mina ora era allarmatissima, andò nel dettaglio della notifica e vide il contenuto contestato: si trattava della foto di una delle ragazze che frequentava i suoi corsi durante la performance teatrale della sera prima. Era stato etichettato come «Contenuto che viola gli standard della comunità perché discriminante verso minoranze o etnie.» Ma come! Mina non poteva crederci, cosa c’era di discriminante in una ragazza con la sindrome di Down che si esprime su un palcoscenico! Possibile che l’algoritmo fosse così stupido?
E non era finita lì! A causa di quel contenuto la pagina era stata bloccata per una settimana! Con tutti gli eventi in corso che avevano in quei giorni! Il danno si prospettava davvero notevole. Mina scrisse lettere infuocate all’helpdesk di Facebook usando gli appositi form, le sembrava di picchiare la testa contro un muro di gomma. Dopo tre giorni ricevette la risposta dal team del social, che si scusava per l’inconveniente e riattivava la pagina. Ma il danno era stato fatto e, soprattutto, chi le garantiva che il problema non si sarebbe ripetuto? Aveva perso troppo tempo su quella piattaforma e ora rischiava di perdere tutto per un click di qualche segnalatore misterioso e di un algoritmo capriccioso. No, Mina non ci stava. Era arrivato il momento di elaborare una exit strategy…
Capire
Due realtà con storie e intenti diversi si ritrovarono impantanati in impasse analoghe: avevano affidato i loro strumenti di comunicazione e di promozione nelle mani di una piattaforma che ora risultava molto meno affidabile e maneggevole di quanto ci si aspettasse. Anzi, addirittura dannosa.
Il problema era sempre lo stesso, essere su un social network
sembrava un must, obbligatorio insomma, per una piccola realtà che voleva comunicare le sue
attività. Ormai le pagine Facebook avevano sostituito il sito web. Erano
più facili da creare e da gestire di un sito e davano l’impressione di
raggiungere facilmente molta più gente di quanta ne raggiungesse un
blog. Eppure il Centro Mulabanda perdeva iscritti mentre l’associazione
di Mina rischiava di ritrovare chiusa la sua pagina promozionale.
Come fare, a questo punto?
fai parte di un gruppo di affinità? vai a affinità
fai parte di un’associazione, azienda o altro tipo di gruppo? vai a altro
Note
Note a piè di pagina:
Una storia di ricreazione in proposito: Sincrono o asincrono? questo è il tema!