Attenzione all’effetto Barbra Streisand

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Quel giorno una giovane donna era morta. Non sopportava più insulti e prese in giro. La sua reputazione era stata distrutta. I social network avevano trasformato la sua vita in un inferno. Come era giunta a quel punto? Aveva girato alcuni brevi video hard per vendicarsi di un compagno che non si era mai lasciato sfuggire un’opportunità per ingannarla. Aveva deciso di rivoltare quelle corna che giudicava umilianti contro di lui, e di rendergli pan per focaccia.

Ma la cosa le era rapidamente sfuggita di mano. I video, inizialmente pensati per un pubblico estremamente ristretto, erano finiti online e si erano diffusi a macchia d’olio. Aveva tentato di tutto per fermare quella proliferazione incontrollata: aveva contattato gli uffici legali delle piattaforme su cui si poteva vedere il video, aveva presentato reclami… Aveva persino traslocato. Nulla da fare.

Sfortunatamente, quella tragica storia non era la prima del suo genere. Ce n’erano state altre e altre ce ne sarebbero state, se non fosse intervenuta una vera e propria mutazione culturale. Eppure tutti sembravano genuinamente indignati, ogni volta che una tragedia analoga si verificava. Non importava se le vittime fossero o meno modelli di virtù. La loro biografia e i dettagli del loro rapporto con i loro cari non ci aiutano a capire le ragioni di quel fenomeno. I dettagli più piccanti, morbosi o scabrosi erano forse la manna per alcuni giornali e riviste dozzinali, alimentavano pesantemente la massa di robaccia sui social network, ma non servivano per comprendere. Gli ingredienti di questo osceno meccanismo erano spesso identici: il materiale sessuale, gli stereotipi di genere e il famoso «effetto Barbra Streisand».

Come poteva un simile contenuto, soggetto a una condanna pubblica apparentemente unanime, suscitare tanta curiosità? Quasi sempre non erano gli atti rappresentati dai video e dalle foto a causare lo scandalo. Internet era pieno di pornografia molto più estrema; materiale oltretutto filmato a una risoluzione molto più alta. Nulla a che vedere neanche con i meandri oscuri di quella che alcuni chiamano darknet*, che in realtà non c’entrava un bel niente.

Infatti si trattava di materiale che usciva allo scoperto, pubblicato e ben indicizzato dai motori di ricerca. Anche quando la scure della censura si abbatteva sul contenuto incriminato, bastava cercare un attimo per trovare, su alcuni forum più o meno specializzati, il materiale ormai vietato; spesso arricchito da commenti schifosi sulla stupidità della vittima o sedicenti riflessioni politiche che sembravano esser state vomitate direttamente dalle epoche più buie della storia umana.

Raramente le vittime riuscivano a immaginare quali avrebbero potuto essere le conseguenze delle loro azioni. Questo spesso accadeva perché, come la maggior parte persone, stavano appena iniziando a prendere confidenza con alcuni effetti noti delle dinamiche di rete. L’effetto protagonista di questa storia purtroppo esemplare aveva preso il nome della cantante e attrice americana Barbra Streisand.

Il principio era semplice: quanto più venivano profusi sforzi per proibire la fruizione e per cancellare un’informazione, tanto più quella si diffondeva. Andava così a colpire un pubblico sempre più ampio. Un chiacchiericcio assicurato, una notizia che senz’altro avrebbe fatto rumore. Un rumore a volte macabro.

Che c’entrava Barbra Streisand? La risposta è semplice: nel 2003 la cantante e attrice intentò causa contro il sito pictopia.com. Mirava a ottenere dieci milioni di dollari di danni e il ritiro immediato di uno scatto che il fotografo Kenneth Adelman aveva messo online. Si trattava di un’immagine scattata dal cielo in cui si poteva scorgere la villa posseduta dalla Streisand a Malibù. L’attrice riteneva che questa fosse una violazione della sua vita privata. I giudici le diedero ragione e, dopo il processo, la foto era stata cancellata dal sito originario, ma si era diffusa altrove sul Web.

In maniera del tutto differente, la Chiesa di Scientology offrì un altro esempio di questo effetto. Aveva richiesto la rimozione di un video di Tom Cruise, pubblicato senza il suo consenso su diversi siti di hosting video, tra cui il famoso YouTube. La soppressione era stata effettuata, ma aveva provocato l’effetto opposto a quello cercato. La cosa era stata denunciata come censura e aveva dato il via al progetto Chanology nel gennaio 2008, che aveva dato l’occasione di intervenire ai primi Anonymous. In quel caso rimaneva la libertà di giudizio: effetto vizioso o caso virtuoso?

Capire

La reputazione, che ci piaccia o meno, era il vero capitale di cui disponevano gli utenti della Rete. La reputazione era difficile da costruire e facilissima da perdere. Altrettanto facile era distruggere la reputazione altrui per mezzo di calunnie o semplicemente prestandosi a far circolare certi contenuti. Ciò che si desidera nascondere emerge con forza sempre rinnovata, calamita gli sguardi, alimenta la maldicenza.

Il luogo privilegiato per la costruzione della reputazione era diventato la Rete di Internet. Questa Rete era stata costruita in maniera volutamente decentrata, per poter essere più resistente in caso di attacco. Le informazioni venivano copiate molte volte, in molti luoghi diversi, in modo che risultasse di fatto impossibile cancellare definitivamente un contenuto diffuso anche solo una volta. Ecco perché l’effetto Streisand aveva una rilevanza mondiale: per via della diffusione capillare del Web e delle caratteristiche specifiche dell’infrastruttura su cui il Web si appoggiava.

Se il contenuto nocivo si fosse trovato sotto il controllo di un’unica autorità o utente, centralizzato, sarebbe risultato banale rimuoverlo o impedirne la diffusione. Paradossalmente, era la caratteristica anti-censura della Rete a renderla perfetta per amplificare l’effetto Streisand.

Non si trattava però di un fenomeno del tutto nuovo, bensì dell’inverso di un effetto di nascondimento noto alla psicologia cognitiva da molto tempo, e ben prima alla letteratura. Il principio potrebbe essere enunciato nel seguente modo: il modo migliore per nascondere qualcosa è in piena vista, in mezzo ad altre cose simili. Nel racconto La Lettera rubata (The Purloined Letter, 1845) di Edgar Allan Poe, il cavalier Dupin intuisce che la preziosa perché compromettente lettera sottratta al ministro G. si trova, opportunamente mimetizzata, in un luogo visibile a tutti proprio nello studio dove il ministro riceve i visitatori.

Nell’era di Internet, tuttavia, tutti si trovavano nella situazione del ministro: tutti sotto scacco, tutti ricattabili per qualcosa di compromettente che poteva rovinare la reputazione. Questa era la parola chiave: reputazione. Naturalmente, anche se prevenire è meglio che curare, una volta che la frittata è fatta, l’unica cosa da fare è cercar di limitare i danni. Si tratta infatti di capire come abbassare il livello d’attenzione, ricordando che difficilmente sarà possibile rimuovere del tutto e per sempre quell’informazione, video o immagine fonte di tanta sofferenza.

Buone pratiche

Seguiamo il ragionamento di Dupin, all’inverso: l’unico modo per evitare l’instaurarsi dell’effetto Streisand è nascondere l’informazione in mezzo a molte altre simili. Le informazioni vengono reperite attraverso i metadati, cioè tutto ciò che sta intorno ai dati e li descrive. Una foto viene recuperata tramite il titolo, la data, la risoluzione, dove è stata scattata, da quale dispositivo e così via. Postare altre foto con soggetti non compromettenti ma lo stesso titolo potrebbe sembrare una sciocchezza, eppure spesso funziona egregiamente. Lo stesso vale per i video e qualsiasi altro contenuto.

Va notato che questa pratica è, di fatto, una forma di censura. Sono molti i regimi dispotici e autoritari che si avvalgono di simili mezzi per tacitare il dissenso. Si lascia esprimere qualsiasi opinione e poi si sommergono i forum degli oppositori con commenti negativi, tramite operazioni di trolling o addirittura shitstorm. Dall’altra parte si inonda la Rete di messaggi a favore del governo, tramite blogger prezzolati o altri produttori di contenuti a pagamento.

La parola alla tecnica

In caso di informazioni ritenute offensive o lesive, è possibile rivolgersi non solo ai diretti interessati, ma anche ai grandi motori di ricerca, come Google, per richiedere la rimozione dei risultati incriminati. Nel caso di Google la procedura è piuttosto complessa, e differenziata, a seconda che si richieda la rimozione di immagini o altro per motivi legali oppure per motivi personali. Bisogna cercare «Norme per la rimozione».

Attenzione: Google si attiene al DMCA (Digital Millennium Copyright Act), la legge in vigore negli Stati Uniti che regola questa materia. Alcuni risultati potrebbero essere rimossi dai risultati accessibili dalle interfacce localizzate, ad esempio in italiano, ma non nel sito principale.

Cosa ne pensa l’hacker?

Segnalare a un motore di ricerca un contenuto lesivo e ottenerne la rimozione nell’elenco dei risultati rientrava nel cosiddetto diritto all’oblio. Ma dal punto di vista tecnico si trattava semplicemente di un ulteriore dato registrato nelle basi dati dell’azienda a cui si richiedeva l’intervento, poiché per rimuovere l’indicizzazione è necessario indicare che quel contenuto non deve essere trattato come gli altri.

Tutto si basava sulla fiducia nel comportamento di quel pugno di mega corporazioni, non certo sull’impossibilità tecnica di ricostruire l’accaduto. Anzi, a rigor di logica sarebbe stato possibile creare dei veri e propri elenchi di tutti coloro che avevano richiesto di essere dimenticati, una sorta di lista nera automatizzata!