Shitstorm, hatespeech, troll, cyberstalking, doxxing. La banalità dell’odio.

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Monica era amministratrice di un gruppo Facebook come tanti altri. Lo gestiva insieme ad alcuni amici e conoscenti virtuali. Un giorno ricevette un messaggio da «Sergio Rollani», che le chiedeva di essere aggiunto come amministratore del gruppo. Ma Sergio era già amministratore, Monica non riusciva proprio a capire.

«Questo malefico social network mi ha buttato fuori, non è possibile! Mah, sarà colpa mia! Sai che non sono molto forte con tutti questi click, accetta, salva. Devo aver fatto qualche casino!», si scusava l’amico nel messaggio. In effetti più di una volta aveva combinato qualche pasticcio. Aggiunto, nulla di più facile.

Non l’avesse mai fatto. Quello non era affatto Sergio. Era un fake, il profilo infatti recava il nome «SergioRolani», con una sola erre, ma lì per lì Monica non ci aveva fatto caso. Il falso Sergio aveva subito messo in opera la tempesta di m**** , eliminando gli altri amministratori e aggiungendo invece al gruppo, con poteri amministrativi, i suoi complici. Una dozzina in tutto. Avevano cambiato l’immagine sulla prima pagina del gruppo con una grande scritta «Shitstorm colpisce, siete nella m****», e avevano postato una quantità pazzesca di sconcezze e oscenità e insulti.

La polizia postale faceva il possibile, ma si sa che la repressione serve a poco, quando non è controproducente; d’altra parte, il fenomeno era in forte espansione, si segnalavano centinaia di attacchi solo in Italia. Si trattava di veri e propri vandali, specializzati in «discorsi di odio», hate speech in inglese. Non erano semplici scherzi, ma sistematiche distruzioni di gruppi di interesse. Nessun social ne era immune.

Susanna invece aveva dato l’amicizia a «Ragazzocolciuffo» distrattamente, aveva una foto intrigante sul suo profilo. Nel giro di qualche giorno aveva cominciato a ricevere decine di messaggi privati, e post pubblici che imbrattavano il suo profilo. Il cyber molestatore non aveva pietà, si divertiva a insultarla in pubblico, mentre in privato le scriveva frasi indecenti. «Ho dovuto chiudere l’account, era diventato una discarica, lo sentivo sporco, insozzato», racconta Susanna.

Giovanni, da moderatore di un noto forum di videogiochi, e amministratore di diverse mailing list, aveva una lunga esperienza di troll. «Sono persone meschine, che nella vita reale non hanno il coraggio nemmeno di guardarti in faccia», spiegava, «ma dietro una tastiera sono di una violenza inaudita. Gettano bombe, di parole. Fanno saltare in aria gruppi interi, insinuano la maldicenza, sparano a zero contro chiunque, ma sanno colpire dove fa più male».

Esisteva anche il doxxing, la raccolta di materiale compromettente per «sputtanare» individui o gruppi. La «macchina del fango» aveva bisogno di essere costantemente alimentata e d’altra parte, come diceva il vecchio Lao-Tzu, «fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce». L’audience si nutriva di scandali, non di storie esemplari.

Parole che feriscono. Discorsi di odio. Tempesta di m****. Molestatori. La violenza sembrava diventata una pratica abituale di relazione in Rete.

Dei discorsi di odio erano rimaste vittime anche numerose celebrità, sommerse da cattiverie gratuite, calunnie, ma anche insulti razzisti, sessisti, fascisti e chi più ne ha più ne metta. Calciatori, cantanti, star del cinema: l’elenco era lungo, ed era solo l’inizio di un fenomeno destinato a sfociare in nuovi exploit di violenza. Il rancore, l’invidia e la stupidità sembravano aver trovato il terreno ideale per proliferare.

Esistevano anche tempeste di violenza, odio e m**** che si potevano ritenere tutto sommato meritate, ma non per questo meno devastanti.

Il caso più noto fu forse quello di Justine Sacco, che nel 2013 inviò un tweet razzista e offensivo: «Sto andando in Sudafrica. Spero di non beccarmi l’AIDS. Scherzo! Sono bianca». Quindi salì tranquilla sul proprio aereo diretto a Città del Capo, da Londra. Mentre era in volo, disconnessa, il suo messaggio venne ripreso dal sito scandalistico Gawker e fece il giro del mondo. All’atterraggio una folla inferocita l’aspettava per linciarla. Risalì sul primo aereo. Tornata negli USA, venne licenziata per aver danneggiato l’immagine dell’azienda per cui lavorava.

In un mondo globale, ogni azione era sotto gli occhi di tutti, pronta a essere valutata, votata, giudicata.

Capire

Il web 2.0 era un insieme di comportamenti, più che di nuove tecnologie. «Stare online a chiacchierare con gli amici», «pubblicare foto, testi, video, ecc. e scambiarli con la community», «stare connessi, al passo con i tempi, partecipare al mondo online!». In una parola, l’imperativo era «condividi!».

Con Facebook, Instagram, WhatsApp, Snapchat e così via, l’ideologia del «tutto e subito, ma più veloce» entrò in una nuova fase dalle tinte religiose. La promessa salvatrice era: «condividi e sarai felice». Senza filtri, senza pensieri, senza connettere il cervello. Si occupano di tutto loro.

Per quanto possa apparire banale e superfluo, capire che non siamo soli quando siamo connessi in Rete è un buon inizio, anzi, l’unico punto possibile da cui cominciare. Un secondo e altrettato banale passo è necessario: capire che non siamo nemmeno circondati solamente da amici, come sembrano dare per scontato i social commerciali, che ci spingono a esprimerci su tutto senza remore, a rispondere a ogni notifica, a «dare l’amicizia» a chiunque la richieda. Esistono anche persone mosse da intenti malevoli.

D’altra parte, ciò non significa che la Rete sia il ricettacolo di tutti i malintenzionati del mondo, e che dobbiamo guardarci con sospetto da chiunque.

C’è stato però un cambiamento radicale in questi ultimi anni di diffusione massiccia dei social commerciali. Troll, haters, shitstorm, doxxing, cyberbullying: termini (e pratiche) con cui i frequentatori del web hanno imparato a fare, spesso tragicamente, i conti. La rivista Time, che nel 2006 celebrava la Rete come «figura dell’anno», aveva lanciato l’allarme: molestatori seriali, fomentatori di odio e di rancore online stavano occupando la rete, trasformandola in un immenso cestino dell’immondizia.

Come aveva già da tempo sottolineato Marco Dotti, acuto critico del mondo digitale, eravamo passati «dalla condivisione al rancore». In effetti, le ondate di violenza verbale espressa negli spazi pubblicati di bacheche private si erano fatte sempre più intense. Per questo alcuni proponevano un giro di vite normativo e l’istituzione di reati ad hoc, come quello contro i discorsi di odio. All’opposto, altri ribadivano che la Rete era uno spazio neutrale e così andava preservato.

Buone pratiche

  • Ricordiamoci: in Rete, non siamo soli. Le strade della Rete sono sempre molto affollate, anche quando ci sembrano deserte. Prima di postare qualsiasi contenuto, ricordiamoci sempre che siamo in pubblico.
  • In Rete, non ci sono solo amici e persone benintenzionate nei nostri confronti. La prudenza è buona consigliera.
  • Negli ultimi anni si sono moltiplicati i corsi di «autodifesa digitale» e i servizi di «pulizia della reputazione». Prima di denunciare alle autorità, cosa che spesso non serve a molto, pensiamo a prevenire, imparando un po’ di autodifesa. E anche quando la frittata è fatta, i rimedi non mancano.

Alcune domande per valutare il livello di rischio digitale:

  • Rifletti prima di postare o far girare una notizia?
  • Hai una panoramica complessiva dei tuoi profili social, personali e di gruppo?
  • Conosci di persona i tuoi amici sui social?
  • Fai attenzione ad accettare nuovi amici, specialmente se non li conosci?
  • Verifichi periodicamente gli amministratori delle pagine pubbliche a cui contribuisci (siti, social, newsletter, altro)?
  • Hai impostato mail di recupero in caso di «squat» dei tuoi account?
  • Se ti capita di «spulciare» i profili altrui alla ricerca di particolari piccanti o compromettenti, hai mai pensato che qualcuno potrebbe farlo con te?

Se la maggior parte delle tue risposte è «NO», è ora di correre ai ripari!

La parola all’hacker

  • I nomi propri esaltano i vandali più degli pseudonimi. Sulla Rete i malintenzionati desiderano di solito colpire proprio quella persona, non tirano a caso. L’uso di pseudonimi, come da sempre gli hacker fanno, è una semplice eppure ottima contromisura spesso sufficiente a tenere alla larga le scariche d’odio.
  • I meccanismi di social engineering (ingegneria sociale) si basano sempre sull’anello debole della catena, ovvero l’elemento umano. Gli esseri umani tendono a fidarsi di chi si presenta come aiutante, e tendono a «riempire» le parti mancanti in una presentazione poco convincente. Questa vulnerabilità non va negata, né combattuta per eliminarla ma, come ogni altra vulnerabilità, compresa e conosciuta come parte del nostro carattere. Lettura consigliata: Kevin D. Mitnick, L’arte dell’inganno, Feltrinelli, Milano, 2006.