La casa delle donne

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La piazza e la rete

Mentre le rappresentanti della Casa Internazionale delle Donne, nell’anticamera del Campidoglio, aspettavavano di essere ricevute dalla sindaca, la prima cittadina (o meglio la sua social media manager) era intenta a postare un comunicato su Facebook. La bacheca virtuale della sindaca veniva utilizzata già da mesi come voce ufficiale del comune di Roma.

Costanza era in piazza insieme a oltre un migliaio di altre donne che urlavano slogan e rumoreggiavano furiose contro lo sfratto della Casa paventato dalla giunta capitolina. Mentre si guardava in giro cercando qualche volto amico, Costanza avvertì la vibrazione dello smartphone nella tasca di dietro dei pantaloni; era Marta, le linkava un post Facebook su WhatsApp, la prima cittadina aveva postato un comunicato sulla Casa delle Donne. Costanza alzò gli occhi dal telefono cercando la sua amica, il post era già arrivato all’attenzione della piazza: la procedura di sfratto non era sospesa.

Poteva osservare la voce, anzi, il messaggio, spargersi come un tam-tam digitale, riflesso nei gesti irritati, nei visi tirati che si rispecchiavano fra loro. Gli animi si scaldarono, la piazza si sentì tradita e presa in giro. Poteva sentire il pensiero che martellava nelle menti di tutte: cosa ci sta a fare lassù la delegazione e che trattativa è se la sindaca già posta un comunicato?

Era una presa in giro, il solito teatrino del potere istituzionale che finge di accogliere le istanze sociali, di ascoltare e soppesare, ma di fatto ha già deciso in barba alle persone in carne e ossa.

Costanza scorse Marta in un drappello di donne davanti alla scalinata. La raggiunse velocemente.

«Basta, saliamo», perorava la sua amica. «Facciamo irruzione nella sala consiliare!», aggiungeva una rossa accanto a lei. Mentre le più focose già si stavano avviando verso il cordone di polizia che proteggeva l’entrata al palazzo, tra le anziane si levò un monito: «Non possiamo fare irruzione mentre la delegazione è al tavolo! In questo modo delegittimiamo politicamente il direttivo!»

Borbottii, liti, capannelli in cui si discuteva animatamente. Una militante dai capelli grigi insisteva: «Non possiamo entrare adesso, dobbiamo aspettare di sentire la delegazione.» A quel punto Marta, dopo essere stata un po’ a digitare sul suo telefono, rassicurò: «Non c’è problema, abbiamo scritto nel gruppo WhatsApp, abbiamo chiesto a Laura, che sta nella delegazione, di dirci se è ok che facciamo irruzione… Non ci muoviamo se non ci danno l’ok.»

Passava il tempo, sul gruppo WhatsApp la delegata taceva. Niente doppia spunta. Marta controllava continuamente il display, Costanza si guardava in giro. Le donne in piazza, furiose e impazienti si facevano venire il sangue marcio per i numerosi like e per i commenti solidali che il post Facebook della sindaca continuava a raccogliere. Qualcuna cominciò a rispondere.

Infine, silenziosamente, Costanza che fino a quel momento non aveva detto nulla, si avvicinò a Marta e le sussurrò piano: «Forse, se la delegata è al tavolo delle trattative, non sta guardando i messaggi su WhatsApp…»

Quando, a sera inoltrata, la delegazione uscì confermando le parole della sindaca già lette sui social network, erano rimaste in poche sotto la pioggia battente di maggio. Lo sfratto restava esecutivo e il popolo di Internet era dalla sua parte.

Capire

WhatsApp era uno strumento di comunicazione asincrono. Una volta inviato un messaggio bisognava aspettare prima di ricevere una risposta, come accadeva un tempo per le lettere, i telegrammi, le cartoline, le email. Eppure cadevamo tutti costantemente nell’illusione che fosse sincrono e che quindi fosse normale aspettarsi una risposta immediata dai nostri interlocutori proprio come accade in una telefonata.

Questa percezione distorta era favorita e anzi provocata dal design stesso del sistema di messaggistica, dalla struttura di interazione. Ogni dettaglio dell’interfaccia, dai colori ai suoni delle notifiche, era stato progettato per comprimere i tempi di risposta, costruendo così l’impressione di condividere un medesimo spazio-tempo, così come avviene in una discussione dal vivo.

Ci sono momenti in cui non è possibile comunicare con qualcuno e bisogna prendere delle decisioni immediate. Liberiamoci dall’illusione di poter essere sempre connessi, di poter ottenere un riscontro istantaneo, specialmente in situazioni affollate. Proviamo a immaginare la situazione corporea ed emotiva delle persone con cui cerchiamo di comunicare: potrebbe essere utile per scongiurare false aspettative o lo scatenarsi di botta e risposta deleteri.

La parola alla social media manager

Ormai da parecchio tempo le pagine e i profili Facebook erano diventati i portavoce ufficiali dei politici con cariche istituzionali. Davano agli utenti la sensazione di avere un rapporto diretto con la persona. In realtà gli account dei politici, come quelli di molti personaggi pubblici, venivano gestiti da un team di esperti di comunicazione, di marketing e di piattaforme social.

Reazioni, engagement, sentiment: tutto veniva vagliato con attenzione e valutato al fine di aumentare sempre di più il numero di follower e di interazioni con i contenuti del profilo del politico di turno. Quantificare era il metodo principale per valutare il successo di un influencer, che fosse una sindaca, un cantante, una fashion guru o un rinomato cuoco poco importava. Quello che era veramente importante era nutrire costantemente i follower con le immagini e le parole più adatte a creare un senso di intimità e di appartenenza. La politica si faceva al suono di tweet, gram e post che oscillavano tra il serio e il faceto pur di mantenere alta l’interazione degli utenti con l’account.

Un po’ di storia

La Casa Internazionale delle Donne di Roma è situata nel complesso monumentale già denominato Buon Pastore (fin dal 1600 adibito a reclusorio femminile), destinato nel 1983 a finalità sociali, con particolare riguardo alla cittadinanza femminile.

Nel 1987 Il Movimento Femminista Romano, a seguito dello sfratto dalla Casa delle Donne di Via del Governo Vecchio - Palazzo Nardini occupa la parte seicentesca di Via della Lungara, 19, rivendicando la prevista destinazione e dando inizio a una lunga trattativa con il Comune per il restauro e la consegna dell’edificio all’associazionismo femminile.

Nel 1992 grazie al sostegno del Coordinamento donne elette del Comune di Roma, il Progetto Casa internazionale delle donne è elencato tra le opere di Roma Capitale e approvato dal Comune stesso. La Casa Internazionale delle Donne diventa così un organismo autonomo preposto a valorizzare la politica delle donne, offrire servizi e consulenze.

Nel 2017 si apre un contenzioso con il Comune di Roma riguardo a canoni non pagati. La Sindaca accusa: «La Casa continua a non voler pagare (…) Femminismo non è avere privilegi», affermazioni che la Casa bolla come fake news.