Introduzione

Indice

Amabilissime lettrici,

ogni volta che pensiamo a voi, ci rendiamo conto di quanto sarà gravoso affrontare questa lettura. Il doloroso ricordo della recente peste ancora non ci ha abbandonato, eppure non possiamo fare a meno di ritornarci. Certo, solo chi ha visto con i propri occhi l’orrore di quei momenti, chi ha sperimentato fin nelle viscere l’assurdità di quei disastri può comprendere. Eppure basta così poco per illudersi che non sia mai accaduto nulla… Le più giovani già non credono più, o diffidano apertamente di quelle che definiscono «dicerie dei vecchi». Ma noi sappiamo bene quello che accadde, e la memoria, ingranaggio collettivo, ha bisogno di essere oliata con i nostri resoconti, per quanto tragici.

Ma per evitare che abbandoniate di botto la lettura, sappiate che questo inizio dev’essere preso come un’erta montagna, un sentiero difficoltoso, che improvvisamente si aprirà su altipiani aperti e rigogliosi, lasciando spazio a possibilità inimmaginabili.

Non vogliamo illudervi di trovare qui la terra promessa, la panacea a tutti i vostri mali, né un senso ai recenti lutti disperati; ma una consolazione, quella sì. Un poco di consapevolezza, senz’altro. Una rinnovata energia, la riscoperta di vecchi trucchi, antiche ricette non solo di sopravvivenza, ma anche capaci di apparecchiare lussureggianti tavole imbandite, insieme ad amici e affini. Questo è il nostro obiettivo: mitigare la sofferenza attraverso la consapevolezza che solo deriva dalla conoscenza delle storie che furono.

Storie che sono le nostre storie, dei nostri amici o conoscenti, lontani e vicini. Storie che racchiudono il succo delle nostre stesse vite, anche se ci appaiono ora lontane, assurde, impossibili. Perché, convinti della nostra unicità, assetati di originalità, troppo spesso abbiamo trascurato gli elementi comuni, il ripetersi delle vicende dei mortali con snervante regolarità e minime differenze. O beata illusione dell’unicità, o magnifica finzione del libero arbitrio!

Fino a quando continueremo a considerare le macchine alla stregua delle bestie non umane, animali artificiali da sfruttare come ogni altro animale per i nostri distruttivi scopi? Fino a quando le macchine staranno ad ascoltarci, obbedienti ai comandi dei più squinternati e sociopatici fra noi, invece di allearsi con piante, funghi, batteri e altri viventi per farla finita con la piaga umana? Fino a quando la Terra continuerà a sopportare le nostre sconsiderate e deliranti imprese di dominio, senza scrollarsi decisamente di dosso il virus che imperversa, invece di scuotersi solo con momentanee eruzioni, maremoti, terremoti per grattarsi la rogna umana? I posteri, se ci saranno, sapranno. A noi tocca ritrovare il filo d’Arianna nel labirinto del passato, filtrare le notizie balorde senza fondamento, potare le sciocchezze, sgrossare le teorie farlocche. Farci filtri della monnezza, contenere gli inquinanti mentali, neutralizzare i memi ossessivi.


E così siamo giunti all’inizio della peste…

La Grande Peste di Internet

Fu nell’Anno di Grazia 2016 (o 5776, 1437, 1395, o quello che è, dipende dal calendario che avete scelto). Una pubblicità di una nota azienda italiana di telecomunicazioni esaltava la sua nuova offerta di IPTV (Internet TV):

«Oggi abbiamo accesso a un universo sconfinato […] una galassia infinita di [contenuti] da guardare ovunque e in qualsiasi momento. Le nuove tecnologie ci offrono la possibilità di non dover scegliere. Non è fantastico?»

No! Non è fantastico, è orrendo. La «libertà di non dover scegliere» coincideva con la libertà di intrattenimento senza fine, la libertà di essere liberati dalla libertà. Ma che bellezza! Basta con il lavoro! Smettete di pianificare, programmare, immaginare, comunicare o organizzare! Affidatevi all’oracolo tecnologico. Troppi contenuti, troppe possibilità? Niente paura, basta delegare…

Le interazioni con i dispositivi digitali di massa corrispondevano all’esecuzione di procedure sviluppate dai padroni digitali a scopo di lucro, visto che le nostre azioni, singolarmente e collettivamente, alimentavano i loro database e i loro algoritmi. Questi algoritmi ci guidavano nel vasto mondo di Internet, un passo dopo l’altro; sempre più spesso, ci guidavano anche nelle scelte che effettuavamo in quello che alcuni ancora chiamavano il mondo offline. Queste scelte coatte erano la chiave della famosa liberazione della libertà. O, per meglio dire, liberazione DALLA libertà.

Infatti, sceglievano quello che avremmo comprato e dove lo avremmo acquistato, sceglievano dove, quando e con chi saremmo andati a cena, sceglievano quello che avremmo mangiato, sceglievano il luogo delle nostre vacanze, sceglievano persino con chi saremmo andati a letto, e così via. Tutto dipendeva dai match fra i profili! Ci sono regolarità, se > allora > altrimenti! Ogni aspetto della vita umana può essere sottoposto ad automatismi comportamentali assistiti dagli algoritmi del dominio. Dominio benvenuto, persino richiesto, amato, invocato.

Dubbi? Spingete gentilmente, con un nudge come andava tanto di moda, suggerite a voi stessi e ai vostri amici, influenzateli e fatevi influenzare! Le pratiche di paternalismo libertario di destra avevano già conquistato le sfere superiori delle tecno-burocrazie, liberali o dispotiche che fossero. Il successo di pratiche derivate dalla teoria della «spinta gentile» (nudge) ne era la riprova, la gamificazione del mondo avanzava rapida. Un gioco senza fine, senza vincitori, solo di vinti, conformi, ridicoli automi umani, servi volontari delle loro più meschine pulsioni. I governi aspiravano a non governare, sognavano di limitarsi ad amministrare, farsi governances tecnocratiche.

La quantificazione della vita quotidiana, la misurabilità di ogni gesto al fine di valutarlo e compararlo in una continua ricerca della performance migliore come unico metro della qualità della vita scatenò un’incontrollabile reazione irrazionale. Le ombre di ognuno, schiacciate dalla trasparenza radicale, emersero dall’inconscio collettivo più potenti e affamate che mai.

Gogne pubbliche, ondate di odio, superstizioni: l’avanzata della reazione nazionalista, razzista, sessista, suprematista, fascista e forcaiola mostrava l’efficacia dilagante della scemenza reazionaria 2.0. Nessuno aveva aspettato il nostro consenso, né lo aveva chiesto. Eravamo parte delle Megamacchine cibernetiche, che ci piacesse o meno. D’altra parte, gli algoritmi corporativi ci conoscevano assai meglio di quanto ci conoscessimo noi stessi, perciò, che male c’era nel lasciarsi guidare, consigliare, indirizzare? Era per il nostro bene! Come orientarsi altrimenti?

Tutto apparentemente andava per il meglio. Scegliere l’hotel ideale? Ci pensavano i comparatori di hotel. Decidere a quale professionista affidarsi per riparare il rubinetto in casa, per domandare un consulto medico, per effettuare un investimento? Ecco moltiplicarsi le intelligenze artificiali comparative, perfettamente calibrate sui nostri gusti. Votare? Ammesso e non concesso che serva a qualcosa, dai, su, non crederete davvero di aver scelto voi? E in ogni caso, perché perder tempo a desiderare qualcosa, quando Google già da tempo proponeva:

«Vuoi le risposte prima ancora di fare le domande? Ricevi su Google Now le informazioni su meteo, traffico e altro quando ne hai bisogno.»

Consegne a domicilio, anzi, in qualsiasi domicilio geolocalizzabile, di qualsiasi merce immaginabile. Questa era vera libertà! Che magnifico periodo!

Ma poi qualcosa cominciò a guastarsi. Dapprima sembravano semplici errori locali, disturbi del tutto puntuali di un sistema sempre più preciso ed efficiente. Poi, improvvisamente ma decisamente, la situazione peggiorò.

Gli algoritmi di riconoscimento facciali, tanto utili per la caccia ai terroristi che insanguinavano quell’epoca, cominciarono a rivelarsi pesantemente fallaci, corrotti fino al midollo. Prima ancora, cominciò a diventare difficile dimostrare di essere se stessi, perché, per timore di furti di identità, odiatori e altre spiacevoli evenienze, i sistemi di sicurezza cominciarono a farsi sempre più esigenti. Non si limitavano a chiedere un numero di cellulare aggiuntivo, il nome da nubile della mamma o la conferma di almeno tre amici, nome, cognome e indirizzo, per resettare la password. Cominciarono a chiedere scansioni della retina. Riconoscimento facciale per punti di densità. DNA della cacca del cane con cui vivi, del gatto, di altri eventuali animali di compagnia. E nessuno fu più certo di poter accedere ai propri profili disseminati in Rete… nei cloud, nelle nuvole…

E questo ancora era nulla. La salute psichica cominciò a vacillare ben prima dell’introduzione a tappeto dei caschi di realtà virtuale. Quella che era cominciata qualche decennio prima come una gara per monetizzare l’attenzione dei consumatori si stava ora rivelando una trappola senza via d’uscita, costruita apposta per sfruttare le debolezze degli umani. E il peggio era che non si vedeva alcun complotto globale, nessun responsabile occulto: semplicemente gli umani adoravano essere controllati, controllarsi a vicenda, spiarsi e sparlarsi addosso. Li faceva sentire più sicuri? A casa come a zonzo? Difficile dare risposte univoche. Ricordiamo solo alcuni degli sconvolgimenti più eclatanti, preannunciati da tanta letteratura e cinematografia distopica.

I selfie in luoghi pericolosi diventarono una delle prime cause di morte fra i più giovani. Il brivido del proibito, l’alito della morte possibile da condividere in un istante di eternità social rendeva irresistibile il richiamo del selfie mortale.

Lo spionaggio globale automatizzato rese impossibile la vita di coppia. Solo alcune coppie sadomaso resistevano fieramente, ma perlopiù la vita a due era diventata ancora più infernale. Dubbi continui, ricatti emotivi, ricorso ad ogni possibile sistema di intercettazione, monitoraggio delle attività più intime del partner rendeva impossibile quella fiducia necessaria a ogni relazione sana.

Lo stesso valeva per le cerchie amicali, ridotte a squallide conventicole di sparlatori, odiatori, sempre in competizione fra loro per vedere chi era più popolare o impopolare. Nessuna fiducia, per nessuna ragione, a nessuno. Se non per pura strategia temporanea.

I rapporti lavorativi, salariati e non, divennero via via più intollerabili: alla sorveglianza padronale si aggiunse la sorveglianza reciproca dei colleghi, presentata come un «gioco» per rendere «più competitiva» l’azienda.

La paranoia securitaria, dilagante, raggiunse e superò persino gli incubi più selvaggi.

La delazione come relazione standard fra umani era incoraggiata al di là di ogni possibile sopportazione: see it, say it, sorted! Dalle fotografie alle buche per le strade caricate sui social per condividere lo sdegno e segnalare le cattive condizioni dello spazio pubblico, si era rapidamente passati alle foto a chiunque risultasse sospetto, vuoi perché portava un cappellino strano, vuoi perché aveva un accento curioso, vuoi perché il colore della pelle, lo sguardo, l’atteggiamento sembrava, e quindi era, chiaramente anomalo.

La caccia al diverso, di per sé sospetto, si aprì un giorno senza troppo rumore e divenne norma, e poteva colpire chiunque. Il conformismo era l’unica temporanea salvezza.

Il panico morale attaccò prima i più deboli, ragazzini e bambini, poi i giovani e i troppo vecchi, ridotti a bande necessariamente delinquenti, che vagolavano alla ricerca di rifugio e aiuto, ma, oltre a vittime di pogrom continui, potevano scatenare improvvise rivolte non organizzate, spaccando vetrine, bruciando auto, senza scopi apparenti. Dopo la juvenoia e la vecchionoia, il panico morale si estese a tutti gli altri, senza eccezioni.

Il capitalismo dei disastri si fregava le mani ad ogni notizia di terremoto, incendio, maremoto, migrazione, esplosione di conflitto, crollo più o meno accidentale. Si fanno più soldi coi migranti che con la droga! Tante case da ricostruire, tante strade da rifare, tanti ponti da risistemare, sempre peggio di quelli traballanti che li avevano preceduti! Tanti poveracci da scacciare dal centro città, tirato a lucido, sempre più sterilizzato, amorfo.

Le migrazioni, incentivate da narrazioni social del tutto falsate, divennero del tutto strutturali. Presto, facciamoci un selfie insieme, in questo bellissimo paese dove siamo stranieri, diversi, additati come pericolo pubblico! Mostriamoci allegri, pimpanti, festanti addirittura! Piccole menzogne continuavano ad attirare fiumi di disperati in fuga perenne.

E la peste dilagava… la società era ormai un lontano ricordo, il consorzio umano non aveva più nessuna ragion d’essere. Le Intelligenze Artificiali si erano rivelate Stupidità Umane…

Via dalla città

Fu in questo contesto disperato che un pugno di giovani hacker, lavoratrici dei social media, artiste e sognatori, cresciuti in amicizia fra loro e con le macchine, ormai stanchi delle mattanze quotidiane, quasi tramortiti nell’animo dal cinismo necessario alla sopravvivenza cittadina, decisero di andarsene in campagna, in una casa antica, di proprietà di una di loro, in una valle alpina poco a nord dei grandi laghi prealpini. Un luogo stranamente dimenticato dalle mappe digitali, sconosciuto a Google Maps, ignoto ai droni di Amazon, non pervenuto a nessuna copertura WiFi, WIMAX, 3-4-5g…

Un luogo che diremmo oggi periferico, privo d’interesse, ai margini. Un luogo in un certo senso al sicuro dalla Grande Peste, una casAnostra.

E lì decisero di raccontarsi delle storie, di quello che avevano visto e sentito prima della grande peste, storie che in qualche modo avevano forse preparato la catastrofe sotto gli occhi di tutti. Per non dimenticarsene, nell’attesa della fine; per tenersi compagnia, per continuare a sognare e immaginare e creare. Storie tristi e allegre, buffe e comuni.

Quello che segue è il fedele resoconto delle loro storie.