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Hacker non si nasce: si diventa

Mattia faceva l’informatico. Si guadagnava la vita grazie alle macchine e alle reti digitali. Gli piaceva: si trovava a suo agio con quelli che gli altri chiamavano stupidi computer. Molto più a suo agio che con tanti umani.

Non aveva studiato informatica. All’università aveva frequentato soprattutto corsi di filosofia.

Per mantenersi agli studi, lavorava all’università come assistente in biblioteca. La famigerata «Sottocrociera» si trovava nei sotterranei quattrocentesci, che davano sul cortile seicentesco del Richini, all’interno della Ca’ Granda del Filarete. Il catalogo delle decine di migliaia di volumi di storia e filosofia era stato digitalizzato da ormai parecchi anni; ma un pomeriggio qualsiasi, a metà degli anni Novanta del XX secolo, tutto cambiò. Un’asettica circolare tecnica informò che il computer a disposizione degli studenti per le ricerche era dotato di «connessione ISDN simmetrica a due canali - 128 kbit/s». Nessuno ci fece caso, finché non cominciarono ad accumularsi richieste per consultazione del catalogo intra-ateneo via Internet.

Mattia si propose, o fu proposto, per aiutare a risolvere l’emergenza e presto diventò lo smanettone della biblioteca. All’inizio le persone si presentavano e chiedevano di lui per trovare schede biblioteconomiche, ma rapidamente cominciarono a chiedere altro. Come rimuovere virus dai loro computer; come trovare videogiochi e craccarli; come aprire caselle di posta elettronica, o anche solo per soddisfare semplici curiosità sulla novità del momento, il World Wide Web.

Mattia a volte era infastidito, perché sembrava quasi che nessuno fosse in grado di cavarsela da solo e che tutti pensassero a lui come una specie di Mister Wolf, quello che risolve i problemi dei killer in Pulp Fiction. Ma più spesso, sotto sotto, era lusingato. Si sentiva utile, addirittura importante, fondamentale. Piano piano cominciò a considerare gli umani piuttosto sciocchi, perché tutto sommato erano molto prevedibili, chiedevano più o meno sempre le stesse cose, dimenticavano persino le procedure più semplici con una facilità disarmante e non sembravano per nulla interessati a capire come funzionassero quelle diavolerie di computer.

I computer invece… be’, quella era un’altra faccenda. Erano curiosi. Si potevano smontare e rimontare, modificare, migliorare. Certo, Mattia era un po’ isolato, anche per via del suo ruolo di mediatore fra umani e non umani. Ma non era l’unico.

Qualche anno più tardi cominciarono gli HackMeeting, raduni di hacker e smanettoni di ogni genere. Arrivò un sistema operativo libero, GNU/Linux, che si diffuse sui server di Internet, le macchine che costituivano l’ossatura della Rete. Era entusiasmante.

Non c’erano reti affidabili? Loro le costruivano, tirando cavi, posando antenne auto-costruite, collegando apparecchi di rete. Mancavano programmi utilizzabili da tutti? Loro li scrivevano, riutilizzando il lavoro di altri hacker. Mattia si sentiva parte di un grande cambiamento, individuale e collettivo. Si parlava di rivoluzione digitale, tutto stava cambiando, era il salto tecnologico più rilevante dai tempi dell’invenzione della stampa, si respirava un’aria di aspettativa e fiducia.

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Venti anni più tardi era difficile ricordare quell’epoca. L’informatica autogestita, diffusa in reti autonome, adatta ai bisogni delle comunità, strumento conviviale, sembrava essersi trasformata in un incubo di controllo distopico, gestita in maniera centralizzata da un pugno di megacorporazioni.

Mattia si era progressivamente disilluso. Dopo tanti sforzi per condividere i propri hack, le proprie scoperte e invenzioni, si sentiva esausto. La maggior parte delle persone attorno a lui si accontentava di schiacciare pulsantoni su schermi tattili, oscillando fra l’eccitazione di un nuovo like, di un’ennesima notifica, e la frustrazione del ritornello «non funziona niente», o addirittura «maledetti computer»!

A nessuno interessava davvero imparare a vivere con le macchine, giocarci. Tranne ai suoi amici hacker smanettoni, che però ormai erano cresciuti, anzi, invecchiati. Molti si erano messi a lavorare per multinazionali dell’IT: erano ben pagati, spesso godevano di grande libertà creativa, sarebbe stato assurdo continuare ad arrabattarsi per quattro lire.

Altri, più giovani, gli sembravano affannarsi su cose assurde: le blockchain, le criptomonete, l’intelligenza artificiale… cosa c’entravano, pensava, le catene di blocchi, le monete crittografiche e l’addestramento delle macchine con la pratica dell’hacking? A lui parevano solo parole d’ordine delle grandi aziende e dei governi, anzi, di quello che ai suoi tempi si chiamava «complesso militare-industriale».

Sotto sotto, sembrava che l’unica cosa rilevante fosse rispettare il diktat della cosiddetta «scalabilità». Infatti persino il progetto più modesto, anche se ancora lontanissimo da una realizzazione concreta, doveva essere in grado di crescere senza battere ciglio, in maniera tendenzialmente illimitata, adattandosi alla domanda crescente.

Un’infrastruttura, un’applicazione, un sito web e così via doveva supportare e sopportare la moltiplicazione degli utenti, pena la perdita degli utenti stessi, innervositi per l’attesa, la mancanza di fluidità, di interconnessione. Per chi forniva il servizi, non rispettare l’ingiunzione dalla scalabilità equivale a perdere introiti. «Always on!», attivo e raggiungibile 24/7/365, a ogni ora del giorno, ogni giorno della settimana, ogni settimana dell’anno, è il mantra delle nostre società, insieme al suo corollario: «It works!» (in inglese, «funziona», ma letteralmente: «lavora»…).

Ma lui non aveva proprio voglia di lavorare così tanto! A volte, anzi, sempre più spesso, non aveva voglia di lavorare affatto! Scoraggiato, stava quasi pensando di ritirarsi, magari in campagna, in montagna, in un qualche posto isolato dove nessuno l’avrebbe più cercato per evitare di sporcarsi le mani.

L’informatico di quartiere

Una sera di maggio, Mattia stava giocando a scacchi su NASone, il server casalingo che gestiva e su cui giravano una serie di servizi per amici e conoscenti: backup, scambio di file, test vari, esperimenti e, naturalmente, un accesso privilegiato alle piattaforme online di giocatori di scacchi. Assonnato, ma incapace di decidersi ad allettarsi, si accorgeva di giocare sempre peggio, per inerzia. I suoi occhi vagavano sullo schermo in cerca di stimoli diversi… inaspettatamente, si aprì una finestrella in basso a destra, una chat, con un messaggio da parte di un tal «kaspathor71»:

«AAA - smanettone cercasi!» abbiamo bisogno di te. Se vivi in zona 9, contattaci su #informa9

Mattia era incuriosito. Saltò fuori che una cooperativa del quartiere adiacente al suo voleva lanciare il servizio di «informatico di zona». Invece di doversi affidare a servizi di riparazione guasti online, a consulenze fornite dai soliti noti, avevano in mente un’informatica più artigianale, un’attività in fondo non diversa da quella del ciabattino che accomoda i tacchi delle scarpe. Qui, si trattava di accomodare computer, smartphone e così via. Certo, a livello tecnico si trattava di cose banali, e spesso in pratica il lavoro assomigliava più a un aiuto psicologico che a una consulenza informatica.

«Mi dica, è grave il virus? Si riprenderà?», chiedeva una signora nervosamente, preoccupata oltremisura per il computer del marito.

«Ma certo, non si preoccupi: sostituiamo tutto il grosso virus che infesta il sistema, ovvero Micro$oft Windows, con un bel Linux, e vedrà!», rispondeva allegro Mattia.

«Ti prego, puoi recuperarmi i dati da questo disco? C’è tutta la mia vita in questo backup, ed è stato cancellato tutto!», supplicava un ragazzo sconsolato.

«Sì, se non fa rumori strani probabilmente è solo un problema di filesystem, ci vorrà un po’ di tempo e pazienza, e un altro disco per copiare tutto, ma dovremmo riuscirci», rassicurava Mattia.

«Mi puoi insegnare come funziona questo affare? Però guarda che sono vecchio e non capisco un tubo, così dice mio nipote», rifletteva un anziano signore, strizzando quasi fra le mani uno smartphone nuovo di zecca.

«Ma guardi che non dipende mica dall’età», assicurava Mattia. «Porti anche i suoi amici, facciamo un corso base, ma ci conti, suo nipote dovrà rimboccarsi le maniche per starvi dietro!»

E così, dopo tanti anni, il vecchio hacker tornò a sentirsi utile e smise di pensare che l’unica possibilità fosse mollare tutto e darsi all’eremitaggio. Anche se non disdegnava la disconnessione, anzi: era necessaria per poter tornare, ricaricato, a sistemare le piccole, grandi beghe del vicinato.

Dice il filosofo: è tutta una questione di scala!

Al di sopra di una certa soglia, una tecnologia diventa inutile e, rapidamente, al crescere della scala, diventa nociva. La controproduttività, come diceva Illich, è una questione di scala: siccome le questioni umane sono originate da bisogni e desideri individuali, e la diversità è una ricchezza, la nocività di una tecnologia si esprime soprattutto nelle sue esternalità negative, cioè nelle ricadute negative che la sua adozione implica, che raramente vengono prese in considerazione perché risultano, appunto, nascoste dalla semplicità che la tecnologia rappresenta, dalla sua disponibilità e diffusione, dal suo porsi come monopolio radicale.

Se tutti usano una «soluzione tecnica» senza preoccuparsi di come funziona e di quale organizzazione implica, coltivare e mantenere una sufficiente autonomia sarà impossibile. La tecnologia riconfigura i rapporti di potere perché la sua ergonomia articola nuove regole del lavoro (ergon-nomos), nuove relazioni fra umani e non umani.

Le Megamacchine, come le chiamava Lewis Mumford, implicano concatenazioni di tipo capitalista e dispotico. Generano dipendenza, sfruttamento, impotenza degli esseri umani ridotti a compratori e servi. Questo vale a maggior ragione per le Megamacchine digitali di massa, ed è importante ricordare che non è una questione di proprietà privata,

perché la proprietà collettiva dei mezzi di produzione a questo livello non muta nulla, e si limita ad alimentare un’organizzazione dispotica stalinista. Perciò [il filosofo Ivan Illich] vi oppone il diritto di ciascuno a utilizzare i mezzi di produzione in una «società conviviale», ossia desiderante e non-edipica. Ciò significa: l’utilizzazione più estesa delle macchine da parte del maggior numero di persone, la moltiplicazione delle piccole macchine e l’adattamento delle grandi macchine alle piccole unità, la vendita esclusiva di elementi macchinici che devono essere assemblati dagli stessi utilizzatori-produttori, la distruzione della specializzazione del sapere e del monopolio professionale. (Gilles Deleuze, Félix Guattari, «Bilancio-programma per macchine desideranti», Macchine desideranti, Ombre corte, Roma; 2004, p. 114; ed. or. «Appendice, Bilan-programme pour machines désiderantes», L’Anti-oedipe, Les editions de Minuit, Paris, 1972, p. 479)

Ecco perché le dimensioni contano eccome. Non si tratta di mitizzare l’idea che «Piccolo è bello», ma di riconoscere che al di là di una certa dimensione, la gerarchia fissa è necessaria per gestire i rapporti tra gli esseri umani e gli altri esseri viventi e non. Non si può scalare, crescere di scala in maniera illimitata senza snaturarsi completamente.

Questo perché tutto è relativo, cioè «in relazione a». Se invece di un numero modesto di persone in spazi limitati che intrattengono relazioni del tutto uniche fra di loro abbiamo a che fare con migliaia o addirittura milioni di persone, la relatività cede il passo all’omologazione. Avere mille amici e migliaia di contatti non ha senso, migliaia di follower nemmeno, non abbiamo il tempo né le energie per valorizzarli. Le relazioni significative richiedono attenzione e competenza, non distrattenzione e sciatteria.

È possibile un’informatica conviviale, cioè che promuova la realizzazione della libertà individuale in seno a una società dotata di strumenti efficaci. Ci vogliono tecnologie appropriate. Basta darsi da fare!