Cyberbullismo

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I ragazzi vociavano nel cortile della scuola, si rincorrevano, giocavano. Sembrava una mattina come tutte le altre. I ritardatari si affrettavano, trascinandosi dietro le grosse cartelle, a ruote come andava di moda allora. La campanella, per fortuna, era in ritardo di una manciata di minuti.

All’improvviso, proprio davanti all’entrata, una specie di fuggi fuggi generale. Solo in quattro rimangono a subire le ire di una signora imbestialita. «Cosa avete fatto al mio Federico, delinquenti? Siete dei bulli. Siete bravi a infierire sui più deboli dai vostri cellulari, eh? Più sberle dovevano darvi, i vostri genitori. Ma saranno dei codardi come voi, c’è da scommetterci! V’insegno io a stare al mondo! Canaglie!»

La prof. uscì dalla sala professori, richiamata da un bidello. Cercò di calmare la chioccia furibonda, dopo aver mandato tutti in classe. Solo a fatica, e minacciando l’intervento della sicurezza, riuscì a far allontanare la signora, che continuava a urlare improperi, «e lei li difende, le denunce ci vogliono, per tutti, non la passeranno liscia!».

La notizia si diffuse in un lampo.

Quattro della 3D malmenati da una pazza all’entrata di scuola.

Su WhatsApp i commenti si inseguivano. Qualcuno aveva creato un hashtag apposito su Twitter, #pazzabullabulli. Qualcun altro aveva scattato delle foto da lontano dell’accaduto, non si vedeva granché, anzi, non si vedeva praticamente nulla, ma le scritte a corredo erano eloquenti, «mamma pazza». Erano partite diverse Instagram Stories quasi contemporaneamente, con foto e commenti. Giravano anche dei microfilmati su Snapchat, nei quali i quattro malcapitati si lamentavano di essere stati bullizzati.

Federico non capiva bene cosa fosse successo. Sapeva solo che adesso tutti lo guardavano, peggio di prima. Aveva raccontato a sua mamma di quei messaggi insistenti nel gruppo di amichetti di scuola, dove lo insultavano in tutti i modi possibili, tra cui che suo padre pagava sua madre per fare sesso, insieme a molti altri. E c’erano foto sue modificate con una qualche app di fotoritocco, in cui aveva la testa grossa, e tutto il resto (soprattutto lì in basso) molto piccolo. Con anche delle freccine che si muovevano su e giù, delle GIF animate, e facevano un rumore sconcio. E poi le minacce di botte.

Parecchie volte si era ripetuto lo schema dei bulli: uno che gli si avvicinava, gli diceva una cosa incomprensibile, e due minuti dopo tutti ridevano perché circolava una sua foto sui social in cui aveva una faccia da scemo, gli usciva un po’ di ciccia dai pantaloni, aveva la patta aperta… un vero inferno.

Ma erano state le richieste di soldi che lo avevano convinto a parlarne. E sua mamma ne aveva parlato alla vicina, una signora che adorava Federico. I suoi figli erano grandi, e lei lo viziava, da sempre. E così la signora era venuta a fare quella scenata, e dicevano anche che avesse allungato le mani, sberloni ai suoi aguzzini.

Lui continuava a ripetere che non era sua mamma: poco importava, già circolavano video con lui a negare e sotto un «bugiardo» a caratteri cubitali.

All’uscita da scuola c’era il finimondo. A gridare come ossessi non erano i ragazzi, ma gli adulti. Sembrava che tutti i genitori si fossero dati appuntamento lì. Qualcuno aveva fatto girare la notizia su un gruppo WhatsApp di mamme, e da lì la diffusione era stata incontrollabile. Chi chiedeva la testa della preside. Chi esigeva la pubblica ammenda della #pazzabullabulli. Chi esaltava i «sani, vecchi metodi»: la cinghia ci voleva, per questi delinquenti, la cinghia!

Camilla, che non stava in nessuno gruppo WhatsApp di genitori perché li trovava nocivi oltre che inutili, si trovò immersa in quel delirio e chiese ad Aria, la sua bimba di 11 anni, cosa stesse succedendo. «Si picchiano perché sono matti, si mandano mille foto e messaggi», ecco la risposta. Almeno qualcuno di lucido era rimasto!

La sera, Camilla venne informata dei dettagli, suo malgrado. Dozzine di post di una violenza inaudita, tutti contro tutti, affollavano la sua pagina Facebook. Il gruppo dei genitori era fuori controllo.

Camilla non sopportava le minacce e gli insulti, tanto meno se invadevano la sua tranquillità di casa. Non aveva WhatsApp, si era tolta dal gruppo dei genitori settimane prima, soffocata dal flusso di sciocchezze. Questo le era costato anche un paio di accuse di «madre poco interessata al benessere dei figli», riportati da amiche via SMS.

Non c’era modo di sfuggire a quella follia collettiva?

Capire

Scherzi e altre goliardate più o meno pesanti sono sempre stati comuni nelle scuole. Ma con le cosiddette nuove tecnologie qualcosa è cambiato. Prima, i bambini erano sicuri che una volta tornati a casa, era improbabile che i loro compagni di classe continuassero a dar loro fastidio. Avevano almeno un po’ di tempo per respirare, pensare, discutere l’argomento con i genitori o addirittura darsi i mezzi per reagire. Invece in un’epoca di iper-connessione che accomuna piccoli e grandi, il bullismo si è diffuso oltre le mura della scuola e continua a perseguitare le sue vittime, non c’è più alcuno spazio protetto.

Il cyberbullismo (cyberbullying nella letteratura anglosassone) mostra elementi di continuità con il bullismo tradizionale, poiché si tratta pur sempre di «comportamenti offensivi e/o aggressivi che un singolo individuo o più persone mettono in atto, ripetutamente nel corso del tempo, ai danni di una o più persone con lo scopo di esercitare un potere o un dominio sulla vittima» (Fonzi, A., 1997). Al tempo stesso però presenta nuove e specifiche caratteristiche, dovute alle caratteristiche tipiche delle reti digitali di massa.

In primo luogo, rispetto al bullismo «tradizionale», è frequente la presenza di un elevato numero di «astanti» (in letteratura, bystanders), che spesso non conoscono la vittima. Il caso tipico è quello di un video diffuso su Youtube o simili: fra l’altro, gli astanti non sono presenti durante l’aggressione.

In secondo luogo, il cyberbullismo è caratterizzato da modalità di offesa e aggressione che spesso non prevedono una relazione faccia a faccia tra il bullo e la vittima. Questo è possibile perché una foto compromettente ad esempio può essere scattata e diffusa «da lontano». Da ciò deriva il fatto che il bullo non è in grado di vedere gli effetti del suo gesto sulla vittima: l’offesa/aggressione si concretizza in uno spazio-tempo separato. Per questa ragione difficilmente il bullo può innescare meccanismi empatici che limiterebbero gli attacchi, come succede invece di frequente negli episodi di bullismo «tradizionale», non mediato da strumenti digitali.

Infine, è possibile agire il cyberbullismo in totale o parziale anonimato, cosa impossibile in un’aggressione/offesa classica, che richiede la compresenza fra la vittima e l’aggressore.

Per combattere il flagello del cyberbullismo bisogna prima capire di cosa stiamo parlando. Una definizione che troviamo abbastanza convincente è la seguente: si tratta di un uso improprio di tecnologie digitali per colpire intenzionalmente persone indifese. Il cyberbullismo identifica un atto aggressivo, intenzionale, condotto da un individuo o un gruppo usando varie forme di contatto elettronico, ripetuto nel tempo contro una vittima che non può facilmente difendersi (Smith et al., 2008).

Poniamo l’accento sull’intenzionalità, sulla reiterazione, sull’individuazione di una vittima, che tale si percepisce; e, infine, sull’uso determinante dei dispositivi digitali.

Un ragazzino aggredito a male parole con minacce di diffondere sue immagini compromettenti in Rete, che si difende da solo o con l’aiuto di compagni e manda a quel paese i sui aggressori, non è vittima di cyberbullismo. Non è vittima, innanzitutto: si ribella a questo «ruolo» e magari stabilisce alleanze con i pari; inoltre l’aggressione, anche se intenzionale, non è reiterata.

All’estremo opposto, una ragazzina abusata, un bambino pestato e derubato, le cui aggressioni vengono diffuse tramite canali telematici dai loro aguzzini non sono vittime di cyberbullismo: sono vittime di delinquenza, di azioni criminali dai risvolti penali. L’aspetto telematico è secondario e magari la reiterazione è assente.

Il cyberbullismo propriamente detto può assumere varie forme, i cui unici limiti sono l’immaginazione degli aggressori. Per distinguerlo in maniera efficace da altri tipi di aggressioni, evidenziamo l’aspetto di reiterazione di un rapporto di sudditanza psicologica in primo luogo, e la dipendenza dell’aggressione dai mezzi di comunicazione elettronica.

Le aggressioni più frequenti sono intimidazioni e minacce, insulti e scherno o anche i pettegolezzi e i «si dice». Grazie a conoscenze tecniche non banali, tra cui anche metodi di ingegneria sociale, è possibile craccare gli account e quindi usurpare le identità online della vittima. In questo modo è possibile farle dire qualsiasi cosa sui social network o impossessarsi dei suoi dati (a volte i più personali) per ridicolizzarla o ricattarla.

Si potrebbe ingenuamente pensare che sia sufficiente per le vittime disconnettersi dalla Rete per essere al sicuro. Ma di solito il risultato è ancora peggiore. Limitati nelle loro comunicazioni, si trovano ancora più isolati. La mossa difensiva si rivela un’ulteriore vittoria per l’aggressore.

Questo fenomeno è tanto più preoccupante perché, lungi dall’essere isolato, sembra essere diventato piuttosto comune. Molti ragazzi riferiscono di essere stati vittime almeno una volta, ma elevate sono anche le percentuali di quelli che dichiarano di essere stati aggressori. Ci sono ormai molte persone, insegnanti ed educatori in prima istanza, addestrate ad affrontare il cyberbullismo: perciò non esitate a chiedere loro aiuto.

Reiterazione, squilibrio di potere, intenzionalità

Gli atti di cyberbullismo sono quindi molto diversi rispetto al bullismo non legato ai dispositivi tecnologici.

La reiterazione non è necessariamente agita dal bullo, ma può essere delegata allo strumento. Un solo episodio, divulgato a migliaia di astanti, ad esempio attraverso YouTube, può arrecare un potenziale danno alla vittima anche senza la sua ripetizione nel tempo. La disponibilità perenne del video, del post, della foto consente la ripetizione dell’aggressione/offesa da parte di migliaia, anzi potenzialmente da parte di miliardi di persone in tempi diversi.

Cambia anche lo squilibrio di potere tra il bullo e la vittima, perché il mezzo elettronico non necessita di un potere mediato, per esempio, dalla forza fisica. Infatti, anche una sola persona, nel chiuso della propria stanza e senza particolari doti fisiche, può compiere atti di bullismo su un numero illimitato di vittime con poche operazioni telematiche. La tecnica può diventare un’arma nelle mani di chi sarebbe altrimenti disarmato.

Infine, l’intenzionalità aggressiva si estende nel tempo e nello spazio, proporzionalmente all’estensione della disponibilità del messaggio aggressivo. Nel bullismo «tradizionale» è relativamente immediato leggere l’intenzionalità nelle azioni del bullo: è lui (o lei) il responsabile dell’aggressione, intenzionato a ferire. Invece nel cyberbullismo la responsabilità può essere estesa e condivisa anche a chi «semplicemente» visiona un video e decide di inoltrarlo ad altri, anche sconosciuti.

Bibliografia minima

  • Ada Fonzi, Il Bullismo in Italia: Il Fenomeno Delle Prepotenze a Scuola Dal Piemonte Alla Sicilia, Giunti, Milano, 1998.
  • Peter K. Smith, Jess Mahdavi, Manuel Carvalho, Sonja Fisher, Shanette Russell e Neil Tippett, «Cyberbullying: Its Nature and Impact in Secondary School Pupils», in: Journal of Child Psychology and Psychiatry 49.4 (2008), pp. 376–385 URL: https://doi.org/10.1111/j.1469-7610.2007.01846.x