Prologo

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Si respirava sconforto e tristezza. Le intenzioni erano buone, lasciarsi alle spalle il disastro per trovarsi fra amici, in un luogo accogliente, protetto. Ma ciascuno portava le ferite delle vicissitudini appena trascorse. Molti avevano perso i propri cari, tutti avevano dovuto abbandonare le loro occupazioni, alcuni le proprie case. Vite stravolte. Come si poteva ricordare? Raccontare quel che era stato prima, senza farsi prendere da malinconia, rabbia, paura?

Ora, sbrigate le prime faccende pratiche, l’entusiasmo era scemato. Si guardavano di sottecchi, un po’ smarriti, un po’ vergognosi. Raccontare, come?

Fu Delia a rompere il ghiaccio. In fondo era stata lei l’ispiratrice di quell’avventura, esaltante sì, ne convenivano tutti, senza mai averne parlato in maniera esplicita; ma anche così spaventevole, ora che si trovavano faccia a faccia con i demoni dei ricordi. Lei aveva contattato tutti, lei aveva suggerito il luogo dove rifugiarsi. Nessuno meglio di lei poteva accordare sulla giusta tonalità le loro voci.

Delia non aveva l’abitudine di nascondersi. La tensione andava sciolta, lo sapeva bene. Fece rapidamente mente locale, mentre passava in rassegna i presenti. Si sforzò di osservare la scena come se non la riguardasse, cercava di notare i particolari.

Un capannello di due ragazzi e una donna con lunghi capelli ramati parlottavano in un angolo, erano Leo, Gep e Arianna. Due ragazze, Marta e Valentina, si davano da fare a sistemare una tavola già imbandita, anche se tutto sembrava perfettamente al suo posto, chiedendo a un altro ragazzo molto giovane, Samir, di andare a prendere questo e quello. Dal fuoco emanavano bagliori di luce caravaggesca, che illuminava la scena in maniera piuttosto drammatica.

Delia si cacciò in tasca la mano sinistra, stropicciò il miscuglio di rosmarino e timo che aveva raccolto poco prima in giardino e si portò le dita al naso. Odorò a fondo. Comunque vada sarà un successo, pensò. O almeno, sarà successo. Non le riusciva proprio di rimanere nel dramma.

«Che società! Che società!», disse ad alta voce, ma come tra sé e sé, senza rivolgersi a nessuno in particolare.

«Altro che! Proprio una società di merda!», replicò subito una delle due ragazze che sembrava in tutt’altre faccende affaccendata.

«Merda? Magari lo fosse! La merda è oro, diceva il mio professore di agraria. Non era un tipo da agricoltura biodinamica, si capisce, ma a modo suo era un ecologista. Ricordo come fosse ieri le gite con la classe. Il pullman strapieno di ragazzini vocianti che improvvisamente cominciano a urlare «Che puzza! Che schifo!», perché si stava passando in mezzo ai campi appena concimati di letame fresco. E lui: «Ragazzi, ma questo è oro! Aprite i finestrini, respirate a pieni polmoni! Così crescono le primizie!»

Non scoppiarono risate generali, ma Delia scorse qualche debole sorriso. Avanti così, pensò…

«Ah beh, è facile far dello spirito così, ma davvero c’è poco da ridere, non vi pare?», insistette l’altra ragazza, «O volete fare un brindisi alla merda?», provocò.

«Dai Vale, non prendertela così a cuore», fece Delia. «Non volevo fare una battuta sciocca. Era un vecchio ricordo, di quarant’anni fa, mi rammenta sempre che esistono tanti punti di vista sulle cose. E però, quando qualcosa ti puzza, fai bene a non fidarti anche se passi per stupida. Vi ho mai raccontato la storia delle impronte di cacca?»

Domanda retorica. Impronte di cacca? Ma che razza di scemenza…

Gli sguardi si erano fatti interrogativi. Delia si servì da bere, riprese la sua posizione di fianco al camino, e attaccò a raccontare.

Una società di cacca

Appena prima della peste era diventato molto comune avere un cane. Un gatto. Un canarino, o almeno un pesce rosso. Quella degli animali domestici era ormai quasi una mania, i negozi di cibo per animali spuntavano come funghi, specialmente nelle grandi città. C’erano ovviamente anche gli originali, che s’accompagnavano con pitoni o altri animali selvatici, per non parlare di quelli in via di estinzione. Insomma, un giro d’affari enorme.

Io sono cresciuta in una casa in campagna, ci sono sempre stati animali intorno e in casa. Nel 2017 però vivevo a Londra, per lavoro. L’idea di vivere con un cane o qualsiasi altro animale non umano in un appartamento non mi piaceva affatto. In maggio una cara amica che sentivo raramente mi chiamò. Doveva partire improvvisamente, questioni di salute, ma non volle dirmi molto, tranne che sarebbe rimasta lontana almeno sei mesi, e poi probabilmente sarebbe rientrata solo saltuariamente in città. Mi fece una proposta: lasciare la minuscola casa in affitto dove stavo e andare a vivere a casa sua. Era una vecchia casa di famiglia a due piani, un vero lusso in città. Lei avrebbe badato anche alle spese, io avrei dovuto occuparmi della sua cagnolina: non poteva portarla con sé.

Era un’occasione fantastica. Mi sarei trasferita in una grande casa ad Hackney, addirittura con un piccolo giardino, non lontano dall’università dove insegnavo. E la cana, Lea, un incrocio fra un pastore norvegese e qualcos’altro, erano venti chili di simpatia, una buffa creatura pelosa giocherellona. Accettai senza esitazione.

Arrivò l’estate. Mi piaceva passeggiare con Lea. La nostra convivenza era davvero un idillio, persino Londra mi sembrava quasi vivibile.

Finché un giorno, mentre giravo l’angolo per rientrare a casa, mi ritrovai di fronte il muso di Lea, appiccicato al muro. Almeno, sembrava proprio lei. Sotto c’era scritto:

«Wanted»

«Chiunque abbia visto questo esemplare è pregato di segnalarlo, grazie.»

Seguiva numero di telefono, #pooprintswanted, indirizzo mail e altri riferimenti.

Non capivo. La Lea era ricercata? E per cosa?

Strappai lo strano manifesto e lo ficcai nel cestino. Doveva essere uno scherzo, assurdo e idiota, ma uno scherzo.

Qualche giorno dopo arrivò una strana lettera. Era firmata «comitato per la legge e il decoro». Mi si ingiungeva di sottoporre Lea alla «regolare procedura per la registrazione del DNA escrementizio» al fine di «evitare ulteriori, spiacevoli incidenti» riguardo a «presunte irregolarità defecatorie» della cana in questione. Non riuscivo a capire di cosa si trattasse. Allegata alla lettera c’era un dépliant della Pooprints, INC. e un pacchetto della stessa ditta. Conteneva guanti sterili, alcuni sacchetti di plastica e un invito per ricevere a casa «gratuitamente e senza impegno» la visita di un rappresentante Pooprints per «risolvere il problema della sporcizia canina» tramite una «sicura, semplice e affidabile schedatura del DNA».

Feci qualche ricerca su Google e mi informai dai vicini che mi riuscì di intercettare. La società si occupava già da un decennio di «Gestione dei rifiuti tramite DNA». Alcuni mesi prima aveva siglato un accordo con le due maggiori società immobiliari della zona, che controllavano gran parte delle locazioni. Gli inquilini con cani erano obbligati, con riferimento a clausole contrattuali specifiche, a fornire un campione della cacca del loro cane alla Pooprints. Il DNA del cane veniva immagazzinato in un database centrale. In caso di ritrovamenti di cacche per strada, nelle aiuole, nelle aree caniche e così via, bastava testare il campione sospetto con il pratico kit-control fornito dalla Pooprints: il quadrupede colpevole veniva immediatamente e senza falla individuato, l’umano responsabile adeguatamente sanzionato.

A quanto pareva, Lea era l’ultimo esemplare canino del vicinato non schedato. Non solo: diversi vicini avevano effettuato test su campioni merdosi ritrovati in quartiere e li avevano conferiti alla Pooprints che, grazie a una mirabolante nuova tecnologia predittiva, era stata in grado di fornire un identikit A COLORI della presunta colpevole: pelo lungo, muso da pastore, taglia media…

Non ci potevo credere. Ecco cos’era quel manifesto «Wanted» che avevo strappato!

C’era una cosa che mi stonava più di tutte in questa vicenda assurda. Ero sempre stata molto attenta a raccogliere le cacche di Lea. Certo, non in campagna, ma in città sì, compreso il quartiere. Quindi ci doveva essere un errore. A meno che… qualcuno non stesse cercando di incastrarci!

L’idea me la mise in testa un mio vecchio amico, un vero smanettone, lo chiamavamo El Mago. Insieme avevamo studiato i fantastici servizi della società della cacca. Era saltato fuori che i test del DNA canino erano davvero molto precisi, le possibilità di errore erano minime. Quindi, secondo El Mago, c’era una sola vera possibilità: qualcuno aveva trafficato con la cacca di Lea! Avevamo cominciato a tracciare un profilo del possibile maniaco.

C’erano un paio di vicini che si erano sempre mostrati parecchio sgarbati con me e decisamente insofferenti con Lea. In particolare un signore di mezza età, inquilino di un condominio in fondo alla via, che fin dal primo incontro aveva squadrato Lea con malcelato disgusto e aveva sentenziato:

«Come ho già detto alla signora, dovrebbe metterla a dieta, è grossa!»

Una volta mi ero azzardata a far notare che Lea era molto pelosa, tanto da poter sembrare un po’ cicciottella, e in ogni caso che problema c’era? Ma quello aveva borbottato qualcosa di antipatico e aveva tirato dritto. Il mio sesto senso mi diceva che Mister «metti a dieta il cane» aveva qualcosa a che fare con questa faccenda. El Mago era d’accordo.

Da quel giorno in poi feci estrema attenzione a tutti i dettagli scatologici. Fino alla scoperta: quel tipo ci seguiva e raccoglieva la cacca di Lea dal cestino! El Mago aveva le foto che lo provavano. Scoprimmo che era ossessionato dalla ciccia (eppure era bello robusto!) e ci aveva scelto come bersaglio.

E così Lea venne scagionata, completamente riabilitata, e tutti vissero felici e contenti!

O meglio, riuscii a rinviare a data da destinarsi la schedatura del DNA. Ma già allora ero una specie di mosca bianca, o pecora nera, l’unica nel circondario che veniva additata come «non collaborativa». Era un’epoca strana, in cui chi non si omologava, chi non accettava ogni novità senza fiatare anzi con entusiasmo, era guardato con sospetto. Forse aveva qualcosa da nascondere…

Ma questa è un’altra storia!